Il deserto, mi ha parlato.

Il deserto,
nel suo perpetuo vagare,
Si mostra a scatti scattanti
ma come un infinito mare.

Il deserto, qui, non è di sabbia.
Ci sono anche fitti boschi,
ai lati di una lunga strada,
piena di ritocchi.

Il deserto è calmo, pieno di colori
Per non parlare poi…
Di uccelli neri che volano lontani,
sprizzando libertà,
proprio da tutti i pori.

Il deserto non parla e nessuna cosa dice,
ma se presti attenzione,
grida,
sussurra,
canta insieme a te ogni canzone che ti si addice.

Il deserto è pieno.
Che sia di cielo o di aria nei polmoni,
tutto è saturo.
Mi sembra di essere un alieno.

Il deserto ama la vita.
Grida di paura inseguendo il sole che lo invita.
Si srotola in mille forme, esprimendo indecisione ad ogni viaggiatore conforme.

Il deserto mi voleva, mi chiamava e urlava.
Qui nel nulla maledetto, percepisco quanto già mi amava.
Mi tirava perché era cosa giusta,
mi invogliava senza una frusta,
mi ha rapita senza dita e mi ha trascinata appena dopo che mi fossi capìta.

Il deserto è una riserva piana e senza ostacoli.
Molti maratoneti sono passati di qui,
tanti ciclisti e altrettanti uomini che per attraversarlo hanno fatto miracoli.

Il deserto mi è piaciuto.
Ogni viaggiatore dall’altro lato esprime un saluto.
Ci si intende dalle due parti, ci si scambia un…

“Ciao, buon viaggio!”

con un movimento buffo degli arti.

Fantastico,
che risate,
pare di stare in un gioco infinito,
e una volta finito,
ci si trova tutti a fare battute mangiando patate.

Il deserto mi ha cresciuta,
stravolta e rilassata.
Mi ha amalgamata,
districata e ascoltata.
Mi ha capìta, recepita ma non mi ha mai illusa, non mi ha mai assalita.

Quanta strada ho fatto…

…e quanta ancora ne farò,

ma una cosa è certa…

Per nulla al mondo indietro tornerò.

Erica, anzi Atmosferica.

“Australia” è anche questo.

Per la prima volta dopo due mesi, mi trovo finalmente a scrivere schiacciando velocemente questi tasti neri del mio computer. Io e Mattia stiamo rubando “qualche minuto” di connessione Wi-Fi al McDonald’s di Kalgoorlie consumando un succo di arancia e una Coca-Cola grande.

Sono quasi impacciata ed emozionata nel trovarmi a poter scrivere attraverso la mia vera macchina da scrivere. Quando ho la possibilità di comunicare grazie al computer, la scrittura è molto più fluente, viva, come la vorrei vivere ogni giorno. Purtroppo il continuo movimento e spostamento in aree pressoché deserte, mi costringe a racchiudere i miei pensieri nel telefono, un piccolo dispositivo che spesso ha bisogno del suo tempo per immagazzinare grandi pensieri.

A proposito di aree deserte…

Mi stupisce il fatto di poter avere a disposizione una funzionante e gratuita connessione Wi-Fi in questa cittadella che mi ha servito impressioni contrastanti che non comprendono quella di efficienza, sviluppo e urbanizzazione. Nel percorrere le strade desolate percependo miseria, povertà e degrado, ho individuato McDonald’s, KFC, Hungry Jack’s, K-Mart e Target come fossero dei bei fiori in un grande prato secco e pieno di erbacce. Vedo edifici che portano il nome di grandi marchi con occhi stupefatti, senza riuscire a dare una spiegazione a questa parvenza di sviluppo in una città priva di vita.

La foto che ho messo in evidenza oggi, l’ho scattata chiedendo a Mattia di accostare giusto per il tempo di catturare la realtà in un piccolo riquadro colorato ma scolorito.

“PICCADILLY BUTCHERS”

Macellaio di Via Piccadilly.

Un nome londinese che deriva dal piccolo quartiere, nel sentirlo nominare potrebbe risultare un negozio moderno, normale, avviato. Ma è qui che vi invito a guardare con attenzione l’immagine.

Un edificio trasandato e abbandonato da chissà quanti anni che sta insieme per grazia divina come tutte le case prefabbricate disposte in fila l’una accanto all’altra nelle vie parallele o adiacenti. Il palo della corrente in legno, i cavi dell’alta tensione scompigliati e disordinati. Una porta marcia e scritte illeggibili cancellate dal sole. In questa strada come nel gran numero di quelle percorse nei due giorni passati, la sensazione di abbandono è molto ricorrente. Pezzi di lamiera affaticati, taglienti e sbiaditi che patiscono il caldo senza che nessuno intervenga a mantenerli in vita. Macchine sgangherate abbandonate su marciapiedi e “lavori in corso” mai terminati.

Molte immagini di stanchezza e morte mi sono passate davanti e ogni volta il cuore si stringeva. La popolazione a Kalgoorlie è per lo più aborigena, e la tristezza si percepisce ovunque, anche al supermercato.

Gli aborigeni rappresentano per me un mondo ancora sconosciuto, incompreso, e posso solo riportarvi quel che ho visto e quel che mi ha turbato profondamente. Vivono una vita di abbandono e disagio e più volte ho incontrato famiglie in cui i piccoli non venivano trattati da tali mentre i genitori assumevano atteggiamenti di sregolatezza. Loro rappresentano la fetta più antica e radicata della popolazione australiana e per questo lo Stato tende a tutelarli dando loro una casa, un contributo mensile per gli alimenti e una certa protezione. Il 99% di loro, però, non è in grado di cogliere l’aiuto portandolo a proprio favore, vivendo per le strade, sotto ai ponti o nei parcheggi e utilizzando i pochi soldi per alcool e droga. Quanti ne ho visti chiedere cinque dollari con le mani giunte, quanti camminare disorientati in una città che dovrebbe essere per loro Casa, quanti con rosse ferite sulla faccia e quanti bambini piccoli con lo sguardo già adulto.

La loro situazione, per quanto riguarda il Western Australia, è assolutamente ignorata e forse non capita. Ripeto che mi limito a parlare per quel che hanno visto i miei occhi in zone isolate come questa, dove loro si adattano a vivere una vita di stenti senza prospettive di miglioramento. Mi è stato detto che nell’Est della Grande Isola, la situazione è nettamente diversa dove parecchi di loro ricoprono alte cariche lavorative.

Questa descrizione, si riflette pienamente nelle case, nei giardini pubblici, nelle insegne scolorite e nelle aiuole piene di erbacce mai estirpate. Molte abitazioni, potenzialmente perfette per famiglie numerose, stanno per cadere a pezzi. Nel piccolo giardinetto ammassi di rifiuti e scope rotte, le finestre senza vetri e le tapparelle storte, cancelli aperti arrugginiti e niente che dia una mezza idea di pulito o civiltà.

Molti giovani camminano per la strada sotto il sole a picco o nella desolazione della sera con in testa un cappuccio. Tristezza e solitudine, sregolatezza e alcolismo, povertà e menefreghismo sono sulle facce di tutti. Le persone, le attività e le poche vie vive,  basano la loro sopravvivenza sul turismo e su quella spinta economica che la Miniera d’ORO, di cui vi ho parlato ieri, possono offrire.

Come potete capire, rimarrò parecchio segnata e scossa da quel che ho visto qui. La mia riflessione, vuole essere una condivisione di crude immagini e sensazioni che non hanno bisogno di grandi giri di parole per trovare chiara espressione.

Ora che stiamo per abbandonare questa località, mi rendo conto che da oggi, Australia non sarà solo sinonimo di Meraviglia, Crescita, Trasformazione, Grandezza, Immensità, Sorpresa, Magia, Stupore, Sviluppo, Urbanizzazione, Velocità ed Efficienza.

No…

Da oggi includo nel pacchetto Povertà, Degrado, Tristezza, Abbandono e Incomprensione.

Da oggi, “Australia” è anche questo.

Erica, anzi Atmosferica.

Un vuoto che riempie.

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La frazione di tempo.

Abbiamo salutato la cittadella di Esperance il cui nome ha a che fare con la speranza. Tappa interessante, già programmata da tempo ma comunque imprevedibile.

Quel Pink Lake pieno di sale mi ha fatto parecchio effetto e riguardandomi nel video, o scorrendo le foto, mi sembra davvero assurdo quello che sto vedendo. I canguri ieri hanno lasciato un segno indelebile nei miei ricordi e quell’emozione me la sono gustata come la più buona leccornia mai mangiata in vita mia.

Tre giorni, il giusto tempo per godere di ogni bellezza di questo paese, uno degli ultimi prima del niente assoluto per chilometri. Migliaia di chilometri.

Prima di dormire, nelle mie ore di relax serale, mi ritrovo a guardare gli scatti della giornata e le immagini immortalate piene di colori e sogni. Non riesco a stare al passo. Faccio fatica a rendermi conto di ciò che sto vedendo, nel preciso istante in cui sto camminando su quella spiaggia, annusando il vento tra quelle rocce o ascoltando il mare da quel punto non protetto. Sto cercando dentro di me, di accorciare la frazione di tempo che intercorre tra il “vivere la realtà” e la successiva “realizzazione della realtà vissuta”, fino a farla scomparire.

È assurdo come mi venga difficile vivere l’istante stando al passo con la consapevolezza.

Ci sto lavorando e sicuramente scrivere mi aiuta a fissare in breve tempo quello che mi tocca, mi sconvolge e mi cambia. Lavoro ogni giorno per assaporare questo viaggio senza farmi sfuggire niente, nessuno sguardo, nessun profumo o rumore.

Dicono che percorrere queste lunghe strade infinite, sia monotono e “sempre uguale”. Beh, sarà che mi sto impegnando a captare ogni minimo cambiamento del paesaggio fuori e dentro me, ma vi assicuro che non è mai “sempre uguale”.
Vedo foreste bruciate, laghetti prosciugati dalla siccità e file di alberi che costeggiano la strada cambiando sempre forma e colore. Il terriccio è bianco, poi rosso e poi di nuovo bianco. Tratti di strada sono affiancati da rotaie infinitamente lunghe e dritte. Quel treno l’abbiamo ad un certo punto raggiunto, trasportava merci, camminava ad una velocità di circa 40 km/h e con un veloce calcolo dell’Ingegnere Avino, siamo arrivati alla conclusione che fosse lungo circa due chilometri. Sembrava non avere fine, fino a quando abbiamo raggiunto la testa gialla che trainava 400 carrozze arrugginite (numero ottenuto da un calcolo matematico approssimando a 5 metri la lunghezza media di ogni container).

PAZZESCO.

Vi sto scrivendo da Norseman, un piccolo centro abitato condito di poche case che paiono più che altro catapecchie. Dopo il niente più assoluto, vedere persone e vie abitate fa sempre piacere ma qui non percepisco nulla di vitale. Paese in degrado, vuoto, stanco e accaldato. Siamo a 200 chilometri da Esperance, fermi per una breve sosta dove la connessione è buona all’ombra di un grande albero che protegge Vando dal sole. Proseguiremo tra poco per altrettanti chilometri giungendo così alla destinazione fissata, ma che mantengo comunque segreta.


I nostri amici ci stanno per raggiungere. Stiamo aspettando due ragazzi inglesi che abbiamo conosciuto in campeggio durante la permanenza a Pemberton. Sarà divertente proseguire con loro e un’ottima occasione per parlare inglese e conoscere la loro amica e compagna di viaggio. Sono indietro di “qualche” chilometro ma sapete bene che qui le lunghe distanze non sono mai concepite tali e presto tenderanno allo ZERO. Molto presto.

Keep in touch.

Erica, anzi Atmosferica.

Ero viva.

È giunto il momento della scrittura giornaliera. Sono spaparanzata sulla spiaggia paradisiaca di ieri, Frenchman Bay, e i miei pensieri mi stavano proprio parlando di questo. Non posso fare a meno di scrivere, sono diventata dipendente da questa liberazione quotidiana con cui getto nero su bianco parole e immagini. Vi avevo parlato qualche mese fa di questa mia recente passione… Ricordo che l’articolo s’intitolava “Scrivere.” ed ero appena arrivata a Perth.

Avevo parlato di come la scrittura sia terapeutica per me. Mi aiuta a seguire ogni pensiero dando priorità a quello più importante. Fatta una selezione, ne approfondisco uno con attenzione e ordine. È bello saper sguazzare tra i pensieri, affrontare a pugni duri anche i più brutti e poi tornare a quelli belli. Non so dirvi se nella mia testa vadano per la maggiore racconti fantastici o realistici ma la cosa bella è che la realtà che sto vivendo in prima persona è un sogno per molti di voi che leggono. Per questo mi impegno come una studentessa del mondo a raccontare quel che vedo e quel che percepisco come la più bella storia fantastica ma piena di realtà.

Vi parlerei oggi di quel che ho provato lassù, nel punto alto della collina che si gettava a picco nell’oceano. Wind Farm è il nome di questo percorso tra cespugli e rocce, che prosegue per qualche centinaio di metri ai piedi di gigantesche pale eoliche. A destra, girandole alte cinquanta metri catturavano il vento con forza indescrivibile e a sinistra, ai piedi della cespugliosa collina, l’oceano sbatteva con violenza sugli scogli. La stradina irregolare, formata da scure assi di legno come quelle delle terrazze di cui vi ho parlato ieri, seguiva la pendenza del terreno andando prima su e poi giù, verso destra e poi verso sinistra…era divertente seguire le sue tondeggianti forme.

Ad un certo punto, le assi in legno non proseguivano, la giostra era finita e un piccolo spiazzo di ghiaia, affacciava sul mare. Sentivo la gioia trapanare il mio stomaco, il vento sgusciare dentro ed ero un tutt’uno con la natura e con la sua immensità.

Mamma mia che potenza!

Che vento!

Ho cacciato un urlo di liberazione al mondo imitando la sua forza. Ho gridato con i pugni chiusi senza paura, senza blocchi, senza limiti. Ho alzato le braccia al cielo, non avevo protezioni, ero scoperta e al suo servizio.

Quell’urlo mi ha liberato i polmoni, sciolto le emozioni, per un attimo ho sentito la testa girare e mi sono dovuta sedere.

image

Ero viva.

Ero piena di ossigeno o forse mancava del tutto…

…ma ero viva.

Erica, anzi Atmosferica.

Mi sembrava di toccarlo…

Mi chiedo come farò a non vedere il mare quando tornerò a casa. Me lo sto chiedendo seriamente perché tornerò seriamente un giorno.

Forse mi mancherà l’aria! Andrò a trovarlo la domenica, anche in un giorno di inverno.

So che lo farò perché guarisce ogni male, solletica l’emozione e si allunga e si ritira, senza mai darsi pace.

Siamo andati a Bunbury, un paesino affacciato sul mare, un porticciolo a completare e tanti locali e localini nella via principale. Un bagno in mare valido per tutti i giorni in cui non l’ho potuto toccare e qualche passaggio a pallavolo con amici che facevano di tutto tranne che galleggiare.

Agitati e divertiti, si passavano la palla senza riuscire a farla volare. Ridevo a squarciagola davanti ad ogni scena ed ero leggera. L’acqua levigava senza troppa forza, il sale disinfettava e la sabbia era morbida. Mi ci sono distesa sopra, ero sola ma in compagnia, la musica entrava nell’anima quasi a dirmi… “Erica! Che nostalgia!”

Il gioco era quello di schiacciare al settimo palleggio, nel giro di pochi minuti, abbiamo cambiato le regole: SCHIACCIA CINQUE.

Era difficile governare la sfera senza che la dolce corrente ti portasse un po’ via. Il sole era basso, sin dall’inizio e alle diciotto, stava andando giù, verso il tramonto.

Era vicino vicino, mi sembrava di toccarlo e ho chiesto a Matteo di immortalarlo. Il sole, il tocco.

Bunbury è stata speciale, una bella sensazione via dalla quiete della nostra situazione attuale. Ciao caro paese, mi hai mostrato novità anche nella tua spiaggia senza niente, solo il mare. Sono felice di averti visto prima della partenza che sarà nuova ma già vissuta e sarà lontano da te, verso una terra che mi chiama, mi assilla, mi tira e mi AMA.

Erica, anzi Atmosferica.

Luce e oscurità.

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Dovevo parlare.

Quel senso di insofferenza di cui vi ho già parlato, mi ha accompagnato fino al mare. Continuava ad insistere in me una brutta sensazione tanto che, il telefono ha deciso bene di non cercare connessione.

Dovevo pensare, riflettere ed elaborare. Mi sono concentrata sulle onde e poi sull’orizzonte. Continuavo a parlare ma non mi sentivo abbastanza e mentre stavo lì, tirata da quella forza, la voce è diventata alta.

Parlavo a me stessa come se fossi la mia amica del cuore, chiedendomi per favore di sfogare e nel caso di urlare. Ho visto una razza e poi dei gabbiani volare, ingolositi da miele e cereale.

Lanciavo a loro qualche briciola, il mare si stava arrabbiando.

No scusa, non volevo sorvolare.. Ora ti parlo.

Dammi solo un attimo, un momento.

Le alghe erano marrone chiaro, uno strano colore e una strana forma difficile da descrivere, identificare. Sembrava corallo spezzato oppure un tronco di un albero annacquato…
Era davvero singolare ma ancora dovevo parlare.

Sono tornata alla riva, stavo in piedi nella sabbia infossata, l’acqua mossa era insabbiata e non vedevo il fondo, non volevo nuotare. Che paura, non ero rilassata e poi, dovevo parlare. La testa mi scoppiava, il caldo mi abbatteva ma l’acqua fresca non bastava.

Il mio amico e compagno di viaggio, mi guardava da lontano. Mattia avrebbe voluto sciogliere i nodi e così si è avvicinato. Ero chiusa, scontrosa e una sola parola di troppo mi avrebbe fatto scattare, scoppiare.

Così è accaduto ma lui è stato bravo. Il problema di fondo chiedeva un dialogo maturo, un diretto confronto, senza nessun girotondo! Uno scontro ragionato, guarisce ogni male e dissolve ogni dubbio perché sì, l’importante è parlare. Mi ha fatto domande mirate, non potevo scappare! Erano lì nitide e chiare, finalmente dovevo chiarire. Gli ho parlato di quel che sentivo, di quel che mi bloccava e mi schiacciava. Il mio problema è sempre lo stesso da tempo con ogni persona che incontro. Ho il brutto vizio di voler aiutare, addossandomi a volte altrui preoccupazioni o problematiche irrisolte. Devo dare anche a chi non chiede e devo essere sempre forte, per me e per altri. Voglio essere più egoista, soprattutto in questo viaggio. Voglio seguire il mio istinto con la certezza che potrebbe essere nient’altro che un vantaggio.

Pochi minuti di magone e poi il sollievo nel cuore…

Finalmente, più nessun rancore.

Erica, anzi Atmosferica.

“Quel giorno, io c’ero!”

Ecco davanti a me l’ennesimo foglio bianco. Dico ENNESIMO perché ormai siamo arrivati al punto di NON poter contare un numero sostanzioso di pensieri scritti, poesie, parole ricercate e fantasie volate.

Inaspettatamente.

Nel momento in cui ho deciso di prendere nota di ogni mia giornata di questo splendido viaggio, non avrei mai pensato di scoprirmi così, come un pozzo senza fondo.

Tanti di voi mi scrivono per chiedermi un consiglio o farmi i complimenti dicendomi di sentirsi vicini a me. È davvero emozionante e sorprendente il fatto di potervi essere di aiuto o di compagnia, mi fate sentire piena ed è anche grazie a voi che la mia testa non smette mai di frullare, il mio cuore di assorbire e le mie mani di scrivere.

Sono convinta che vorreste qualche aggiornamento sostanzioso sulle mie giornate che sto trascorrendo a Pemberton e maggiori descrizioni della mia, anzi, nostra giornata lavorativa.

Siamo provati soprattutto fisicamente da queste ultime sessioni di nove ore che ci vedono impegnati ad inscatolare Avocados. Il nostro compito è tutto il giorno molto meccanico e monotono, intervallato da brevi pause.

La pausa scatta quando i rulli si fermano, la pausa finisce quando, dalla stanza in cui facciamo break, sentiamo la grande macchina riaccendersi.

Non servono orologi e vi dirò di più, noi non vogliamo MAI guardare l’ora. Dal primo giorno abbiamo preso questa decisione e dato che i telefoni non danno segnale, questo è un ottimo motivo per lasciarli lontani.

Ogni volta che ci mettiamo in posizione, lo scorrere degli Avocados tra le nostre mani è accompagnato dal fluire dei nostri pensieri. Poche volte ci perdiamo in chiacchiere visto che una piccola distrazione, può causare un sovraffollamento di frutta sul rullo, tale da creare un possibile danno.


Prendi Avocados.

Guarda Avocados.

Bello?

Scatola “PREMIUM”

Brutto?

Scatola “SECOND”


Questo è il ragionamento da fare per ognuno. Non è difficile. È noioso e lobotomizzante.

Quello che stiamo cercando di fare è renderlo il più piacevole possibile. Anche le canzoni ormai, sono diventate sempre le stesse e quando ne parte una già sentita altre dieci volte nelle sette ore precedenti, parte la risata.

“Bella questa! Non la sentivo da un pezzo!”

Oltre alla parte fisica c’è anche quella psicologica. Il gioco sta tutto nel cercare di direzionare i pensieri nel giusto senso e, quando sono belli, farli durare il più possibile.

A quante cose ho pensato! Partendo magari da un piccolo aneddoto, ho creato una grande storia. Ho pensato profondamente alle mie amiche, dando ad ognuna il giusto tempo che merita. Penso al mio futuro, a quello che vorrei fare ma vi confesso che quel pensiero lo vado immediatamente ad inscatolare.

Sì, senza osservarlo troppo, lo piazzo nella PREMIUM.

Cerco di trasformare la lobotomia in introspezione, la monotonia in immaginazione e la musica la seguo, vado a ritmo, la fermo e provo ad imparare parole.

Stiamo lavorando molto prima dell’arrivo del caldo. Nei prossimi giorni dicono che le temperature si alzeranno notevolmente infatti domenica e lunedì saremo di riposo.

Per quanto riguarda le questioni finanziarie, abbiamo ricevuto i soldini meritati per le 44 ore di lavoro della settimana scorsa. Siamo soddisfatti e ci siamo dati una bella pacca sulla spalla come incoraggiamento.

Qui sta balenando l’intenzione di andare un paio di giorni a Perth. Due ragazzi del gruppo festeggiano il compleanno e si sta organizzando una trasferta generale. Potrei cogliere l’occasione per rivedere delle persone e perché no, per la terza volta la città. Con una nuova compagnia, magari mi sembrerà diversa. Direi che potrebbe essere una giusta filosofia.

Non nego seconde possibilità nemmeno alle città.

Sono felice, sono energica, stiamo lavorando, stiamo guadagnando e nonostante la stanchezza, ci stiamo divertendo.

La manager oggi ci ha detto che probabilmente la raccolta di Avocados si prolungherà fino a metà febbraio e, di conseguenza, anche l’imballaggio. Noi rimarremo qui fino a quando l’ultimo frutto non verrà riposto ordinatamente in scatola.

Lo vogliamo vedere con i nostri occhi, lo vogliamo posizionare con le nostre mani perché poi un giorno, ripensandoci, diremo:

“QUEL GIORNO, IO C’ERO!”

Erica, anzi Atmosferica.

Due scarpe appese.

Incuriosita e sorpresa, ho digitato su google queste parole:

“Scarpe appese fili corrente”

Ho scoperto che dietro a questo fenomeno, si nasconde un’arte, una storia, un racconto.

Lo “shoefiti”, racchiude in sè l’unione di due parole ovvero “shoe” (scarpa) e “fiti” (graffiti). Come potete apprendere, l’etimologia della parola spiega già molto. L’iniziativa ribelle di lanciare le scarpe legate da un laccio verso il cielo, nasce per la prima volta negli Stati Uniti e si diffonde poi in tutto il mondo.

Anche qui, a Pemberton, nel Western Australia, un signore che portava ai piedi scarponcini marroni da lavoro, ha deciso un giorno di liberarsene. Magari l’ha fatto per festeggiare un evento particolare, un nuovo lavoro o il matrimonio, magari per rendere nota a tutti una sua cattiva intenzione.

Dietro a due scarpe appese ai fili dell’alta tensione, si celano decine di leggende metropolitane che parlano di fatti positivi come avvenimenti importanti e nuove scoperte, come di spiegazioni raccapriccianti legate alla droga o a segnali in codice per ladri e malviventi.

Come sempre però, voglio viaggiare liberamente dando, a quel che ho visto e che noto ogni giorno camminando sulla strada, una motivazione tutta mia. Non mi interessano le teorie inventate nel corso degli anni perché tali rimarranno senza mai permettermi di sapere se quella vera è una, qualcuna o nessuna.

Era un uomo, sulla cinquantina.
Aveva lottato tutto il giorno contro il caldo infernale e contro quel sole che batteva sulle sue spalle, in quel campo immenso pieno di mucche rinchiuse a pascolare.
Sentiva i piedi caldi e costretti, chiusi e sudati. Avrebbe voluto toglierle quelle scarpe, avrebbe voluto sentire l’erba solleticare.

Quella sera, una strada in salita lo portava a casa e sentiva la sua vita scorrere sotto quel tocco rigido di passi veloci e stanchi.
L’asfalto emanava il caldo assorbito in una giornata e lui ancora pensava, pensava ma non agiva.

Visti i cavi dell’alta corrente, ha deciso bene di agire. Un filo alto nel cielo, avrebbe potuto liberarlo per sempre da quella sensazione di costrizione. Ha levato le scarpe dai piedi, con un laccio ha fatto due nodi. Le ha lanciate, urlando di gioia e finalmente si è sentito potente, quasi un mago, sorprendente.

Ha scelto il punto più alto e visibile a tutti. Un equilibrio impossibile ma realizzabile. Tutti quelli del Paese le avrebbero viste e avrebbero pensato…

“Pensa te, quel pazzo trasandato..”

Voleva farsi vedere tenendosi nascosto, liberarsi in alto e non buttarle in fondo ad un fosso.

Sono rimaste lì per anni, e resteranno lì per altrettanti. Ogni giorno, quell’uomo sulla cinquantina va a lavorare nei campi ricordandosi sempre di quei pensieri emozionanti. La libertà prima di tutto, poi il lavoro. Il solletico dell’erbetta fresca sotto ia piedi e il calore dell’asfalto sono ogni giorno per lui i due rimedi, dei magici antidoti o come dire, i suoi amici veri.

Io quell’uomo l’ho forse visto, e forse l’ho pure conosciuto. Chi lo può sapere. Ogni giorno è buono per poterlo incontrare.

Non avrei molte cose da dirgli se non…

“Complimenti Professore, da quelle scarpe appese, apprendo che avrebbe molto da insegnare!”

Erica, anzi Atmosferica.