Great Ocean Road.

La Great Ocean Road, che costeggia la costa sud del Victoria, ha aperto le danze con la “Bay of Islands” (immagine in copertina). La baia era appiattita dal tempo uggioso ma quegli scogli possenti, prendevano comunque forma tra le creste delle onde. Ammassi di roccia tanto grandi da essere identificati come “Islands” (isole), erano modellati dal mare un po’ come la forza delle dita può dare forma ad un pezzo di argilla che gira sul tornio, creando un bel vaso di forma particolare e personale.
I colori stratificati portavano a pensare che un tempo il livello del mare era davvero davvero alto, lasciando un’impronta ancora oggi ben visibile.

Proseguendo di circa un chilometro, eccoci al “The Grotto”, anch’esso raggiungibile attraverso una passerella in legno che dal parcheggio raggiungeva il punto di vista o visita, decidete voi.
Anche qui la potenza del mare si è costruita un rifugio, a intervalli di cinque/dieci minuti, un’onda più potente delle altre schizzava fino al punto più alto tra le rocce, andando a formare una pozza di acqua tiepida e calma. Questa grotta mi dato emozioni contrastanti e vicine. L’irruenza a pochi centrimetri dalla calma, l’invadenza non distante dalla riservatezza, il freddo a due passi dal caldo e la profondità dalla piattezza. Contrari ravvicinati e in contatto tra loro mi facevano paura.

Non poteva essere vero.

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Il terzo stop è segnalato da un cartello marrone, con una scritta chiara che indicava dopo 300 metri, il successivo “Lookout”, un’altra finestra sull’oceano:

“The London Bridge”.

Mentre percorrevo il nero sentiero asfaltato, mi domandavo cosa mai avrei potuto vedere da lì a pochi metri, non appena mi fossi affacciata sul mare.

“Un ponte? Il ponte di Londra…? Cioè?”

Ebbene sì, la roccia erosa dalle acque andava a formare un ponte tra le onde schiumeggianti. Un tempo, anche la parte di roccia più spostata a sinistra era un tutt’uno con il pezzo rimasto attualmente, resistito alle forze oceaniche. Diciamo che esisteva un ponte, con due arcate. Una è la sopravvissuta.

Immagino che tonfo e che inondazione quando quella parte di roccia ha deciso di staccarsi e tuffarsi in mare. Aiuto!

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Dopo pochi chilometri, un’altra deviazione: “The Arch”. Ancora una volta, la perfezione e la simmetria dell’energia oceanica, ha modellato con precisione lo scoglio. Una forma tondeggiante fuori e tondeggiante dentro, sopra e sotto.

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La pioggia non si placava e la nebbia si faceva sempre più fitta, mano a mano che proseguivamo sulla costa. L’ultimo stop doveva essere il più suggestivo, incredibile.

“Twelve Apostles”

nonchè

“I dodici apostoli”.

Il grigiore del cielo non mi permetteva di spaziare e quei dodici grandi scogli, che più che apostoli mi sembravano grandi totem, erano coperti e offuscati.
Ne vedevo sei, al massimo sette. Li ho contati più volte perché li avrei voluti identificare tutti ma nervosamente ci ho dovuto rinunciare. In una bella giornata di sole mi sarei persa tra la luce dorata di quelle rocce rosse, sarebbe stato bello.

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Non mi resta che cercare di dare una chiave di lettura più profonda a questo tempo malinconico e riflessivo.

Posso dirvi che l’atmosfera era magica, gli apostoli misteriosi, il mare incazzato ma io ero comunque felice.

Erica, anzi atmosferica.