A spasso per Adelaide.

Vi porto con me in perlustrazione nella città di Adelaide, South Australia.

Dopo una sveglia afosa e faticosa, abbiamo raggiunto il centro distante UNDICI insofferenti chilometri dalla West Beach, area in cui abbiamo campeggiato per tre notti. Il tragitto in mezzo al traffico lento e la cappa di smog causata dal tempo uggioso e umido, non erano di buon auspicio. Mattia, ad ogni semaforo più lungo di trenta secondi, faceva andare la gamba nervosamente tanto che, ad un certo punto, ha esclamato:

“Il mio livello di sopportazione è pari a ZERO!”

Sono scoppiata in una risata fragorosa delle mie, rendendomi conto che la mia sensazione si rispecchiava totalmente nella sua. Giuro che sarei scesa e me la sarei fatta a piedi, ci avrei messo meno. Dopo intere giornate a macinare chilometri senza trovare il minimo ostacolo o rallentamento, è inevitabilmente scaturito in noi questo odio irrefrenabile nei confronti delle comuni regole di circolazione.

Il sistema viario lo definirei rettangolare. È questa la forma della parte principale della città, attraversata da ordinate ampie strade che si intersecano perpendicolarmente. Un grande rettangolo, al centro del quale si trova Victoria Square, circondato sul perimetro da parchi verdi curati con precisione.

Dopo aver parcheggiato Vando, abbiamo iniziato la nostra lunga camminata che si sarebbe protratta per circa quattro ore, concludendosi con una bella abbuffata di sushi.

Quanto mi mancava!

Ho iniziato a camminare con il naso all’insù, cercando per chissà quale motivo, grattacieli o alte costruzioni. Niente di questo genere all’orizzonte. Dopo aver vissuto più di un mese a Perth, la mia mente associa ad ogni città, immensi e possenti palazzoni ma qui, nemmeno l’ombra.

L’area identificata come “China Town” non manca. Vie piene zeppe di negozi e ristoranti cinesi sono state le prime attraversate e fin lì, nulla di nuovo. Mi sembrava di stare in una qualunque città già conosciuta dove accessori di ogni genere vengono venduti a basso prezzo e dove non mancano insegne incomprensibili e negozi per turisti. A voce alta pensavo e sorridevo…

“Ma quindi?? Dove inizia la città?”

Ero curiosa di conoscere la sua identità, la sua faccia, senza avere di mezzo realtà insediate successivamente.

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Svoltato l’angolo, eccoci in Victoria Square. Delusione. La piazza era totalmente ricoperta da tendoni bianchi di forma tondeggiante che non mi permettevano di vedere dall’altra parte. Davanti a me vedevo una fontana che perdeva ogni magia a causa di quelle impalcature ingombranti che ho cercato di non inquadrare scattando la mia fotografia (come vedete in copertina) e, se alzavo lo sguardo, edifici alti quindici piani facevano da contorno. Sul perimetro della piazza viaggiavano a velocità lenta e ordinata un paio di tram che scorrevano su binari precisi e verdi.
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La nostra camminata prosegue così verso la via centrale, l’unica zona pedonale. Sia a destra che a sinistra, famosi marchi prendevano scena e parecchi artisti di strada intrattenevano il pubblico esprimendo le loro particolari doti.

Due di loro mi hanno colpito.

Lui e lei, due fratelli. Lui tredici anni e lei dieci. Circoscritta la loro area di esibizione con una corda rossa, invitavano i curiosi a disporsi vicini e lungo la riga. Lui aveva una buona parlantina e scherzava con i passanti proprio come fanno quelli di trent’anni più grandi. Recitavano una sorta di filastrocca per introdurre l’esibizione e per attirare quanta più gente possibile. Lei era piccolissima, indossava un top e un gonnellino rosa, che si abbinavano perfettamente alla sua scura carnagione. Seguiva il fratello in modo meccanico, sia nelle esclamazioni che nei loro passi di danza. Non sono riuscita a capire se lo facevano per passione o se la vita di strada li aveva obbligati ad inventarsi e reinventarsi. Lei era stanca, il caldo la indeboliva e tutte quelle capriole e torsioni erano per lei una fatica. Sapeva perfettamente quale mossa avrebbe seguito la precedente e si abbandonava tra le braccia di lui con totale fiducia e amore.

Una monetina se la sono meritata.

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Alla fine di quella via estremamente musicale e viva, abbiamo svoltato a sinistra. La strada terminava con maestose costruzioni tra alberi sempreverdi e siepi. Era l’Università di Adelaide che esprimeva bellezza all’interno di un parchetto aperto al pubblico.

Mi sono seduta su una panchina, dove la vista era coperta ma non disturbata dal verde che mi circondava. Mi sono per un attimo teletrasportata nei chiostri dove studiavo durante i miei anni universitari a Milano. Mi sedevo su un muretto, su un gradino, su una panchina e ricordo che leggere un’ora all’aria aperta, mi rendeva di più che tre ore incastrata in un banco e tra quattro mura. Mi piaceva. Respiravo in quel momento la stessa pace e la stessa atmosfera di conoscenza che in quei chiostri di Milano riempiva i miei polmoni. Sono rimasta seduta per una mezz’ora apprezzando il silenzio pulito che mi avvolgeva come le pareti di quei maestosi ed eleganti edifici.

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Ieri era domenica quindi nessuno studente all’orizzonte. Mi sarebbe piaciuto osservare l’andirivieni di ragazzotti australiani con le braccia cariche di libri e l’espressione orgogliosa. Gruppetti di ragazze che se la contavano sul marciapiede dopo aver posato le loro biciclette dipinte con colori pastello.

Mi sono immaginata questa ipotetica scena di un giorno infrasettimanale.

Tornando alla macchina la pioggia ha deciso finalmente di palesarsi senza più rimanere imbrigliata in nuvoloni neri e rumorosi. Mi sono spostata verso il ciglio della strada dove non sarei stata riparata dalla tettoia che copriva il marciapiede. Volevo sentire anche la pioggia di questa città e conservare dentro al mio cuore un ricordo particolare.

La pioggia di Adelaide.

Erica, anzi Atmosferica.

Hello from Adelaide.

Tanti cari saluti da Adelaide.

Questo nome suona bene nella mia testa, mi piace.

Sembra quasi una città italiana, mi viene facile pronunciarla a differenza di Perth. Sì perché è sempre stato un problema capire come posizionare la lingua per dire correttamente quel nome. Vi giuro, però, che ho sempre evitato di italianizzarlo dicendo “PEEERT” con la “E” spalancata e la “T” dura come quella di un “TRONCO”.

Chiusa questa parentesi, siamo arrivati qui nella prima città che si tocca nel South Australia, provenendo dal Western. Dopo migliaia di chilometri nel vuoto, mi ha fatto effetto incontrare semafori rossi e dover pazientare in mezzo al traffico. Per un istante mi sono sentita nervosa ed insofferente nel dover aspettare tutto quel tempo. Muovevo le gambe e continuavo a cambiare posizione sul sedile.

“Dai! Forza!! Circolate!”

Se avessi avuto super poteri, avrei sicuramente velocizzato i tempi.

Non ci siamo subito addentrati nel centro preferendo rimanere nella zona residenziale di periferia, dove abbiamo fatto una tappa necessaria al supermercato e prenotato tre notti in campeggio.

Ci troviamo quindi già a casa, il cielo è azzurro e il prato è curato da qualche individuo assai preciso. Vando è parcheggiato su una piazzola di cemento rosso, allineato perfettamente con altri Van e Roulotte. Si sta bene senza le maniche e con le braghe corte, ma non c’è il caldo che abbiamo patito in questi giorni durante la traversata.

I quartieri periferici sono tranquilli. In ampi viali alberati sono disposte con precisione grandi case piatte e larghe, garage puntualmente incorporato nel lato destro della villa e jeep rigorosamente parcheggiato davanti. Sono tutte di colore rosso, marrone o beige e sono tenute alla perfezione, precise, ordinate e apparentemente nuove, pulite e ricche.

Netto contrasto con le case degli ultimi paesi del Western Australia. Nulla a che vedere con quelle zone abbandonate e prive di luce dove vedere una persona seduta in giardino a leggere un libro, sarebbe stato un vero miracolo.

Siamo vicini all’aeroporto e attaccati alla West Beach. Mi prenderò il tempo per andare a curiosare dietro a questa fila di alberi e siepi che mi separano dal mare, come per fare molto altro. Poi vedrete! Sopra le nostre teste, quindi, prendono il volo aerei bianchi e arancioni. Che effetto vederli decollare. Ripenso inevitabilmente a quando ho spiccato il volo e mi trovavo schiacciata dalla pressione a quel sedile che, nel giro di trenta secondi, aveva già preso la mia forma. Guardavo fuori dall’oblò, felice e curiosa di sapere quel che sarebbe stato di me. Ero tranquilla, non avevo paura e mi sentivo comunque al sicuro.

(Avrete già capito che oggi sto andando a ruota libera. Non sto seguendo un filo del discorso, ma è proprio questo il bello. Seguitemi voi!).

Oggi abbiamo quindi viaggiato per 309 chilometri, la distanza che separava Port Augusta da Adelaide. Inutile ribadire che sono state tre centinaia di spazi deserti, gialli e secchi. Due sagome al lato sinistro della strada hanno catturato la mia attenzione.

“Mattia rallenta…”

Ci avviciniamo, erano due ciclisti.

Papà erano due ciclisti!

Lui e lei, erano affaticati e molto attrezzati. Un sorriso di soddisfazione è comparso sul loro viso, quando hanno capito di essere i protagonisti della mia fotografia. Hanno alzato un braccio per salutare e per comunicare gratitudine. Non so da dove siano partiti, non so per quanti chilometri abbiano pedalato. Tenendo conto che nei 1900 chilometri che li precedevano, c’era il deserto più secco e aridamente assoluto che ci possa essere, credo proprio siano partiti da Perth. In questo momento staranno ancora pedalando ma devo dire che ormai sono decisamente a buon punto.

Stima e rispetto per loro.

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Ne approfitto e vi faccio vedere anche il maratoneta incontrato ieri nel tratto da Ceduna a Port Augusta. Ve ne ho parlato nell’articolo precedente e penso che vedere la sua immagine, renda la sua descrizione ancor più toccante. Alle sue spalle potete vedere la strada già da lui percorsa e vi invito a fare una riflessione: prendete quel tratto di circa un chilometro e moltiplicatelo per 1986 volte. Ecco, quell’uomo sta conquistando passo dopo passo ogni singolo metro di quel rotolo bollente che si stende sotto ai suoi piedi.

Un mito.

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Penso che la tenacia, la forza di volontà e lo spirito di avventura di queste persone, superi l’inimmaginabile.

Sono senza parole.


Nei giorni passati, mi sono arrivati parecchi messaggi indiretti da voi che leggete. Vorrei fare un appello a tutti gli amici di amici, parenti di parenti, cugini di cugini, amiche di sorelle e amici di genitori, dicendo che avrei il piacere di parlare direttamente con voi! Sarei curiosa di scambiare due parole con ognuno di voi, avendo così il riscontro che desidero.

Potete scrivermi qui sotto lasciando un commento, oppure se volete lasciarmi un messaggio, un’impressione o una critica in privato, potete farlo sia attraverso la pagina Facebook di Atmosferica  sia con una semplice e-mail a erica.maddaloni@gmail.com

A domani!

Erica, anzi Atmosferica.

Due scarpe appese.

Incuriosita e sorpresa, ho digitato su google queste parole:

“Scarpe appese fili corrente”

Ho scoperto che dietro a questo fenomeno, si nasconde un’arte, una storia, un racconto.

Lo “shoefiti”, racchiude in sè l’unione di due parole ovvero “shoe” (scarpa) e “fiti” (graffiti). Come potete apprendere, l’etimologia della parola spiega già molto. L’iniziativa ribelle di lanciare le scarpe legate da un laccio verso il cielo, nasce per la prima volta negli Stati Uniti e si diffonde poi in tutto il mondo.

Anche qui, a Pemberton, nel Western Australia, un signore che portava ai piedi scarponcini marroni da lavoro, ha deciso un giorno di liberarsene. Magari l’ha fatto per festeggiare un evento particolare, un nuovo lavoro o il matrimonio, magari per rendere nota a tutti una sua cattiva intenzione.

Dietro a due scarpe appese ai fili dell’alta tensione, si celano decine di leggende metropolitane che parlano di fatti positivi come avvenimenti importanti e nuove scoperte, come di spiegazioni raccapriccianti legate alla droga o a segnali in codice per ladri e malviventi.

Come sempre però, voglio viaggiare liberamente dando, a quel che ho visto e che noto ogni giorno camminando sulla strada, una motivazione tutta mia. Non mi interessano le teorie inventate nel corso degli anni perché tali rimarranno senza mai permettermi di sapere se quella vera è una, qualcuna o nessuna.

Era un uomo, sulla cinquantina.
Aveva lottato tutto il giorno contro il caldo infernale e contro quel sole che batteva sulle sue spalle, in quel campo immenso pieno di mucche rinchiuse a pascolare.
Sentiva i piedi caldi e costretti, chiusi e sudati. Avrebbe voluto toglierle quelle scarpe, avrebbe voluto sentire l’erba solleticare.

Quella sera, una strada in salita lo portava a casa e sentiva la sua vita scorrere sotto quel tocco rigido di passi veloci e stanchi.
L’asfalto emanava il caldo assorbito in una giornata e lui ancora pensava, pensava ma non agiva.

Visti i cavi dell’alta corrente, ha deciso bene di agire. Un filo alto nel cielo, avrebbe potuto liberarlo per sempre da quella sensazione di costrizione. Ha levato le scarpe dai piedi, con un laccio ha fatto due nodi. Le ha lanciate, urlando di gioia e finalmente si è sentito potente, quasi un mago, sorprendente.

Ha scelto il punto più alto e visibile a tutti. Un equilibrio impossibile ma realizzabile. Tutti quelli del Paese le avrebbero viste e avrebbero pensato…

“Pensa te, quel pazzo trasandato..”

Voleva farsi vedere tenendosi nascosto, liberarsi in alto e non buttarle in fondo ad un fosso.

Sono rimaste lì per anni, e resteranno lì per altrettanti. Ogni giorno, quell’uomo sulla cinquantina va a lavorare nei campi ricordandosi sempre di quei pensieri emozionanti. La libertà prima di tutto, poi il lavoro. Il solletico dell’erbetta fresca sotto ia piedi e il calore dell’asfalto sono ogni giorno per lui i due rimedi, dei magici antidoti o come dire, i suoi amici veri.

Io quell’uomo l’ho forse visto, e forse l’ho pure conosciuto. Chi lo può sapere. Ogni giorno è buono per poterlo incontrare.

Non avrei molte cose da dirgli se non…

“Complimenti Professore, da quelle scarpe appese, apprendo che avrebbe molto da insegnare!”

Erica, anzi Atmosferica.

Le stesse luci.

Scattata a Perth, precisamente a Northbridge.

È una foto buia ma luminosa che racchiude una specie di mistero, come quello che si percepiva attraversando quella via con un paio di locali nascosti e i muri pitturati, disegnati, pasticciati.

Era comunque arte.

Le luci sospese a mezz’aria, regalavano il giusto tocco di colore e la giusta chiarezza. Quando arrivavano piccole folate di vento, le lampadine appese ai fili ballavano, molleggiavano, creando fusione di colori. Un ragazzo metteva dischi, la musica non era del tutto chiara, lo erano di più le luci.

Per me.

Ero affascinata, mi sono seduta ed ero rilassata. Era come se avessi già visto quelle luci, avessi già avuto quelle sensazioni e quindi ho iniziato a sfogliare il mio album delle fotografie.

Quando mi hanno detto che era ora di andare via, non volevo alzarmi da quella panca di legno. Volevo guardarmi intorno ancora per un pò.

Non avevo finito!

Le luci, avevo visto le stesse luci.

Luci bianche.

Luci rosse.

Luci verdi.

Luci Blu.

All’improvviso l’illuminazione!

A Milano, un mese prima di partire avevo scattato una foto alla Colonne di San Lorenzo in Porta Ticinese. Ero rimasta colpita dalle luci che regalavano al buio  colori caldi. Faceva freddino ricordo, ma quel rosso era un fuoco.

Bene, ora che abbiamo ricollegato tutto, ho recuperato nel mio album la foto che avevo scattato quella sera di autunno, il pensiero che avevo scritto pensando a Milano e al fatto che sarei partita. Avevo parlato anche della calma che aveva suscitato in me quello scorcio colorato.

Ve lo faccio leggere volentieri 🙂


Milano mancherÀ

Milano

Sicuramente Milano mancherà.

Con le sue luci e le sue atmosfere è diventata per me importante, è una città a cui inevitabilmente sento di appartenere.
Inizialmente ti sembra immensa, la circonvallazione (che nome strano), il Duomo (immenso), Corso Sempione (che figata), Porta Genova-Porta Venezia-Porta Romana-Porta Vittoria-Porta Ticinese-Porta Nuova-Porta Volta (ma dove sono tutte ste porte?), Arco della Pace (Ma dov’è la pace?), Castello Sforzesco (quanto è bello!), La Darsena (un altro nome strano), gli artisti di strada e l’arte che svolazza nell’aria.

Gli anni universitari, le serate organizzate all’ultimo, amici nuovi e amici rivisti dopo mesi o dopo anni, primi amori e innamoramenti fugaci in metropolitana ed infine il primo lavoro.
Incontri casuali che ti fanno chiedere quanto sia piccolo il mondo.. Oppure.. Quanto sia sssimpatica Milano!

Ti fà gli scherzi, ti propone immagini inaspettate e scene imbarazzanti, ti fà perdere la strada e puntualmente arriva la multa.

Ti fa sentire agli estremi..senti il freddo e ti viene voglia di scappare, senti il caldo e pensi sia infernale.
Il traffico, lo smog ma poi, quando vuoi tu, quando la cerchi..

La pace.

Le persone sono solo abituate ad andare veloci..ma in realtà, ogni cosa è calma. Al momento è la mia città.

Milano può essere calma, nella calma degli occhi di chi la guarda.

Calma piatta. Mancherà.

21 Ottobre 2015 – Porta Ticinese, Milano

Erica, anzi Atmosferica.


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Ma voi cosa inseguite?

Riflettevo con Papà, realizzando la mancanza di contatto con la realtà.

La vedo, si riflette in ogni specchio di questa città.

Dicevo a lui che per la strada, mi piace guardare e scrutare le persone, il modo in cui camminano, come si pongono e come si vestono. Super business men in giacca e cravatta che escono da altissimi grattacieli fatti di vetro rincorrendo la loro carriera, donne eleganti, altre un po’ meno. Mai figure anziane o troppo giovani. Capita anche che mi sieda su una panchina, in città. Quanto è interessante decifrare i passanti. Chissà lui chi è, chissà quanti anni ha, chissà dove è nato ma soprattutto…

…mi chiedo cosa stia inseguendo.

Siamo in Australia, una terra immensa immersa nell’oceano, tanto distante da molte altre, soprattutto dalla mia. Popolata sulle coste e nel mezzo, il niente. Solo chilometri inesauribili che separano le poche città cresciute dal nulla, fiorite da un piccolo seme e coltivate con tanta cura e dedizione.

Tutti che nella pausa pranzo corrono, camminano con passo spedito con lo sguardo ben puntato in avanti. Tanti lavoratori verso le 17:00 si bevono una birra alla spina con i colleghi. Le strade sono sempre abbastanza deserte, non percepisco senso, direzione.

Ma qual è l’obiettivo? Quale può essere il fine in un Paese tanto ben organizzato quanto isolato e chiuso su se stesso come un riccio?

Lo diceva anche il taxista la settimana scorsa. L’Australia ha un’estrema paura di  indebolirsi e non vuole permettere a nessuno di renderla insicura. Non puoi importare farmaci, piante, semi, erbe, animali, NIENTE! Sono terrorizzati all’idea che qualcuno possa portare qui oggetti proibiti, che potrebbero creare una vita nuova, una novità.

Ma, di nuovo, qual è l’obiettivo?

Se penso ad un obiettivo qui, in quest’isola, penso solo a quello dei miei occhi e a quello della macchina fotografica. Voglio descrivervi e scrivervi, attraverso le immagini, quello che vedo, voglio creare nella vostra testa un quadro completo, vorrei farvi viaggiare.

Possono impedirmi di importare ed esportare qualsiasi cosa ma le idee, la mia creatività, il flusso della mia energia… quello no.

Quello viaggia a velocità supersoniche dentro e fuori, oltreoceano, via mare, via terra e via aerea. Lo importo e lo esporto quando e come voglio e vi faccio gustare profumi, sentire suoni e vedere, guardare e toccare!

Lo potete confermare?

Forse l’obiettivo del mio viaggio è questo. Voglio farvi assaggiare quello che attraverso delle fotografie non potete gustare. Non voglio essere banale, voglio portarvi messaggi inaspettati e che siano soprattutto sorprendenti.

Il mio fine qui è questo, Arricchirmi e arricchirvi per poi, tornare a casa consapevole della mia vera ricchezza. È questo quello che inseguo.

Sono qui da poco.

Oppure no.

Chi stabilisce quanto sia il poco?

Ho usato il mio tempo con cura.

Scruto tutto dall’alto, sono lontana dalla mia casa e da qui la vedo nitida. Un viaggio serve anche a quello. Allontanarsi dalla propria terra per visitarne delle nuove e una volta giunti in quelle nuove voltarsi, e guardare da lontano la propria. Qualcosa di diverso c’è sempre.

Vedo la mia famiglia, le mie amiche, le persone speciali e quelle invece che hanno sempre preteso troppo senza regalare niente. Vedo la mia casa rosa e il giardinetto che la circonda su due lati. La mia cagnolina e il cortile dove da piccola giocavo con i gessetti. Gusto il tramonto affacciandomi al balcone e vedo molto bene la forma dello Stivale. Possiamo tanto criticare e lamentarci di questo Paese ma io da qui lo vedo bellissimo, diverso.

In Italia, abbiamo la fortuna di essere in contatto con il Mondo. Puoi prendere un treno o un aereo e visitare città Atmosferiche, monumenti caratteristici e puoi, quando meglio credi, partire e in poche ore raggiungere posti dove la lingua locale è lo spagnolo, il francese, il tedesco, il dialetto brianzolo oppure l’inglese. Puoi scalare una montagna in ogni stagione dell’anno, vedere il mare o un grande lago. La neve, la sabbia. Puoi lasciarti trasportare da un fiume o raccogliere le castagne. Le cascate, le stalattiti, le rose. La cultura la senti parlare, la coltura è in ogni parte mai uguale. Il buon vino, i campi di grano. Puoi inseguire un aquilone e ritrovarti a volare sopra al mare. Le isole, paesini pieni di tradizione, chiese costruite chissà quando e poi le colline tra le montagne e le pianure.

Noi, cari lettori, siamo più ricchi di quanto crediate.

Vi invito a fare una riflessione.

Voi cosa inseguite? Chi inseguite? Qual è la vostra ragione di vita?

Non serve immaginare posti lontani per sognare. Lasciatevelo dire. Molto spesso, basta guardare poco più in là del proprio naso per vedere l’inizio della realizzazione di qualsiasi desiderio.

Erica, anzi Atmosferica.


Ps: nella foto potete gustare insieme a me il tramonto che vedo dal balcone di casa. In Italia.

Ps1: mi piacerebbe avere da voi un riscontro. Siete davvero tantissimi e ogni giorno i numeri quasi mi spaventano! Una critica, un apprezzamento, una domanda o una risposta. Fatemi sentire! Scrivetemi anche privatamente Qui . Soprattutto dopo aver scritto questo articolo, sono molto curiosa di sentire la vostra voce.

Ci conto 🙂

Una panchina blu e bianca…

…ha catturato la mia attenzione.

Stava a ridosso di quel prato verde curato con tanta precisione e godeva di una vista paurosa, mozzafiato!

Che dispersione…di onde luminose…

Leggermente rialzata rispetto al livello del mare, aveva una visione completa, scrutava dall’alto senza parlare.

Il mondo… che incanto…

Se guardava lontano, una linea netta spaccava l’orizzonte e separava il cielo dal mare, creando due spazi infiniti ma sempre pronti ad emozionare.

Il sole le batteva in viso…

La panchina blu e bianca, era pulita e avvitata all’asfalto quasi per paura di volare a causa di tutto quel vento che soffiava dall’alto.

Sembrava nuova, appena dipinta con colori acquerello oppure, con un azzurro pastello.

Stava girata di sbieco, come per vedere chi arrivasse alle spalle ma era pronta e molto comoda ad accogliere qualsiasi viaggiatore ed osservatore errante.

Regalava quindi, con la sua posizione, un magico tramonto al calar della sera e nelle ore più calde il rumore delle onde. Che pace vera.

Se solo faceva due passi in avanti, la spiaggia fina e bianca sotto i suoi occhi le faceva venire la voglia di slegarsi e rotolare fino a raggiungere il mare.

La panchina blu e bianca stava lì, sempre pronta a coccolare e tra le braccia una storia da raccontare.

Erica, anzi Atmosferica.