Il mio viaggio continua…

Viaggiavo e sorridevo.
Ai capelli qualche boccolo, la pelle dorata e secca di salsedine.
Del mare.
Poggiavo i piedi sul sedile, tenevo le gambe piegate in uno stretto abbraccio.
Era il mio.
Più stringevo, più liberavo.
L’asfalto bollente correva veloce.

Ero felice.

La strada era al contrario e il cielo infinito.
Come fosse ieri ricordo che, ogni volta che guardavo su, faticavo con il respiro.
Erano giorni strani, pieni di tutto e di niente.
Ricordo come fosse ieri.
Ero talmente bella da farmi mancare il fiato.

Ehi cos’hai capito…

Ero bella dentro, ero un fiume in piena, forte e potente.
Nessuna barriera, nessun limite.
C’era solo quella strada e, su di lei, ho imparato a respirare.

Diritta e infinita.

Migliaia di secchi chilometri, il deserto, l’oceano e ancora il deserto.
Era verde.
Secco ma verde.
Avrei chiesto la velocità al suono, avrei voluto vedere la fine

ma non è mai arrivata.
Nemmeno quando mi sono fermata.

Quella strada continua, cambiano i colori e i paesaggi.
Migliaia di secchi chilometri, il deserto, l’oceano e poi ancora il deserto.

È verde.

Secco ma verde.

Il deserto della mia anima

che rinasce.

Erica, anzi Atmosferica.

Un motivo c’era.

Forse serve una mattina tranquilla anche se un po’ influenzata per lasciare che il corpo si rilassi e che la mente torni a viaggiare un po’.
Forse serve una fotografia ricevuta da Valentina, una mappa di quel Paese lontano che ancora oggi mi rende orgogliosa dei passi da gigante che mi ha fatto fare per poterlo attraversare tutto, da Ovest a Est.

Leggo dei nomi, vedo le poche e lunghe strade tracciate di rosso, le ripercorro con Amore ma senza nostalgia.
Lí ci sono andata davvero.
Un posto lontano di cui ricordo la fatica mentale, la mancanza di casa unita alla voglia di farcela. Un viaggio di scoperta e rivelazione che mi ha permesso di affermare la mia forza, il mio coraggio, la mia grande libertà, il mio “io”, il mio potere, i miei desideri.

“Australia” per me non vuol dire “canguri e ragni” ma molto di più. Per me significa Viaggio Interiore, cielo immenso e lunghe strade infinite.

Per me “Australia” è sinonimo di grandezza e infinito, indipendenza emotiva e fisica, lavoro stancante e tanta natura.

“Australia” è nel mio cuore e a volte me ne dimentico, concentro tutta l’attenzione sul presente senza pensare a quel posto che mi ha fatto rinascere, mi ha fatto imparare che “Se vuoi, Puoi” e che oltre alle meraviglie naturali c’è molto altro da scoprire, basta volerlo cercare e trovare.

Sono quasi felice, oggi, di non essere troppo in forma. Il mio corpo si è fermato per un motivo.

Sono contenta di poter volare su quell’aereo della mia crescita e sulle ali di quella scelta presa con grande coraggio. Un biglietto di sola andata, pochi soldi in tasca, la preoccupazione dei miei genitori e troppa voglia di dimostrare che “Un motivo c’era” e che dovevano fidarsi di me.

Dovevo fidarmi di me.

Mi serve guardare una cartina, mi serve leggere il nome della città di Perth in cui sono arrivata ma da cui non sono partita. Mi serve leggere Indian Ocean per rivedere onde alte e travolgenti, per sentire l’acqua gelida che mi bagnava i piedi e che voleva portarmi via, il vento forte e la sabbia dritta dritta sugli stinchi, gli schizzi in faccia, i surfisti che erano tanto bravi e coraggiosi ma mai troppo belli come tutti pensano.
I gabbiani sempre compagni, le rocce che cambiavano colore, i miei occhi illuminati dal cielo stellato, la notte.

Poi ritrovo il Nullarbor Plain, una distesa di niente e di sete, il vuoto più assoluto che ho riempito di pensieri, chilometro dopo chilometro. Auto-analisi, canzoni, risate al vento e tante fotografie. Uh, quante.

Detto questo…

Auguro a te, di ritrovarti nel deserto delle paure e delle incertezze per capire chi sei e da dove vieni, ma soprattutto dove vuoi andare.
Lí dove la mente è persa, l’unica possibilità che hai è creare la tua strada e farla tua in ogni curva e ostacolo.

Decidi tu la rotta della tua vita, lasciati guidare dalla tua essenza, e non potrai che prendere la direzione giusta.

Erica, anzi Atmosferica.

Napul’è

Bello vivere e visitare una città, sempre stata sulla bocca di tutti ma mai gustata di persona. Finalmente anche io ho potuto assaporare i suoi gusti, annusare i suoi profumi.

Che buona. Era ora.

Napoli mi ha sempre incuriosita, a partire dal suo nome, mi ha sempre dato l’idea di buono, bello, arioso, italiano e saporito.
I detti e le citazioni, le canzoni, i pareri e le dicerie, il caffè, l’accoglienza, la magia, la pizza e la pazzia, la sfogliatella, il mare e il Vesuvio, il cielo, il dialetto e le polpette al ragù.

Ho camminato tanto, assaggiato, ascoltato e finalmente capito. Qualcosa, non tutto. Per il tutto non basterebbe una vita.
Il caffè è buono soprattutto amaro, è cremoso e costa 90 centesimi, non c’è la presunzione ma la consapevolezza, quella vera, quella che tace ma è evidente e ti spiazza.

La città è grande ma non ho ben capito quanto, le persone sono accomodanti, gentili e accoglienti. Dopo qualche minuto di conversazione si è già amici, c’è la voglia di andare a fondo e di conoscersi con naturalezza. Che bellezza. Ci si guarda sorridendo e si canta per la strada. Si ride, si gode.
Mi sento un po’ come loro e la mia origine lo testimonia. Sì, sono terrona e anche con orgoglio, con foga.

Quel dialetto spaccato e stretto, rigido ma quasi melodico, ti arriva a volte dritto in faccia come uno schiaffo, ma nelle canzoni tocca prima il cuore, dolcemente, senza far rumore.

Scrivo di Napoli e sono felice, quanta gioia in questo posto e quanta semplicità tra le persone, libertà di espressione, la moda, lo stile in comunione.
Mi sono aperta al nuovo, mi sono chiusa al vecchio, ho cercato di non perdermi niente, per sbaglio, per giusto, per fortuna, con gusto.

Napoli vive tra le canzoni romantiche e le chitarre degli artisti di strada, galleggia sul mare con maestosità ed è talmente fitta da dare forma alle colline. Case antiche e nuove, ammassate tra panni stesi e signore affacciate ad osservare, a fumare sigarette inquinate da una povera vita, da una tristezza infinita.

La pizza fritta ha sconvolto il mio palato, la compagnia napoletana ha reso il tutto ancor più gustoso, leggero e sicuro, potenziando l’intensità del viaggio. Mi pareva di stare con un Cicerone saggio, ed ero con amiche grintose, curiose, giocose.

Divertente.

Era buona, intendo la pizza.
Ne avrei mangiate fino a scoppiare e aveva un buon gusto d’Italia. Quel gusto verde, rosso e bianco, quello del basilico e del pomodoro, quello della ricotta servita fresca, la mozzarella.

Napoli, quanto sei bella.

La sfogliatella croccante di sfoglia o di frolla, con quel velo di zucchero che ti imbratta la faccia, ti fa tornare bambina. Come quando mangiavi il gelato al cioccolato, con gusto, senza prendere fiato.

Era carnevale, domenica.
I bambini qui ci credono, non hanno messo via i sogni e girano per le strade con le bolle di sapone e le spade nella roccia, corrono in riva al mare tra i palloncini, gli alberghi ed un tramonto sul finale. Senza sosta.

C’è impegno e cura, sporcizia e disordine, c’è caos tra un vento fresco e sottile, tagliente, pungente. Quanta gente.
Napoli la sera sembra estate tutto l’anno, bevi un drink sul muretto, davanti al baretto. Il locale è chiamato così, questa è la dicerìa del ghetto.
Stai in compagnia in maniera naturale, di lavoro non si parla, si vive la vita che passa una volta. Il napoletano ti mostra con orgoglio, ti guida, istruisce. Ti fa cantare, mangiare e ti porta a ballare.

Il napoletano alleggerisce.

Per parlare di scultura e cultura, il Cristo Velato mi ha lasciato a bocca asciutta. Lo guardavo con occhi increduli, Lui, sdraiato e morente, sembrava ancora vivo e non fatto di pietra. Un velo sopra al corpo che sembra di tessuto, s’intravede in trasparenza il viso che soffre, la mano non mente.

Un ultimo giro nella piazza, un negozio vintage di gente squisita, una foto alla pizza e la Coca-Cola Fresca.
C’era il sole caldo che baciava il mio viso e poi quella strana voglia di caffè, all’improvviso.

Erica, anzi Atmosferica.

Questo è il bello.

Un nuovo articolo per festeggiare l’inizio di una nuova realtà, una nuova avventura che prospetta crescita e cambiamento.

Tutto deve sempre cambiare.
Nulla sarà mai fermo.

Il viaggio del “Chissà dove arriverò”,
il viaggio del “Parto da qui”,
è iniziato pochi giorni fa, a Milano, alla fermata Missori della metropolitana.

Settembre e Ottobre,
Due mesi pieni di alti e bassi,
sali e scendi,
energia mancante,
disaccordo emozionale,
accordo astrale,
difficoltà nei volti,
aspettativa negli occhi.

Dal 2 di novembre tutto questo mi ha portato sulla strada del “Da oggi inizio”
e sulla sedia di una scrivania.

La mia.

Un’agenzia di branding dove lo studio del marchio e dei colori sono il centro del mondo ed il primo pensiero giornaliero, quello precedente allo sbadiglio. Io sto dalla parte della gestione del progetto, della supervisione del tutto, dove le responsabilità senza tempo sono sinonimo di impegno.
Fondamentale è il rispetto delle tempistiche, il contatto con il cliente e l’interpretazione delle sue esigenze.

Tutto pane per i miei denti.
Tutta questione di precisione e comprensione, assertività accomodante, puntualità nelle consegne.

Quante parole difficili.
🙂

Sono qui e vorrei fermarmi a guardare il mio posto, il traguardo raggiunto dopo un percorso, dopo giorni di corse e fatica, di grinta mai persa ma qualche volta assopita.
Sono qui e cerco di guardarmi ferma e non già in movimento, mi osservo da fuori e non dall’interno, voglio focalizzare per una frazione di secondo questa realtà di colpo materializzata, diventata improvvisamente “La mia giornata”.

Mi viene in mente il termine in inglese “journey”, una parola che in italiano significa “viaggio” ma che ricorda il suono di una “giornata”.

Appunto.

È proprio vero che non è mai finita.

Mai accadrà di arrivare.

La giornata stessa è un infinito viaggiare.

Questa riflessione mi perseguita dai tempi dell’Australia, della Thailandia, dal mio trascorso in un posto del mondo dove ad andare veloce era solo l’asfalto sotto le ruote, oppure in un altro posto dove avevo tempo, tanto tempo per pensare, riflettere, spaziare.

Ora qui fuori la luce del giorno si riflette nei vetri azzurri del palazzo di fronte e il tramonto scende sulle case, alle 16.45 sempre puntuale. Guardo fuori e la speranza si è fatta realtà, le mille domande trovano risposta nella normalità e io lavoro, con tutta la forza che ho.

Lavoro per il mio futuro e per la mia crescita, lavoro per la mia realizzazione, incastro ogni mia cellula assecondando le mie esigenze,

e quelle degli altri.

È il caso di iniziare a comprendere che la vita va veloce e inutile è cercare di stare dietro alla sua interminabile voglia di arrivare.
È bello e giusto starci dentro, guardando attorno e godendo il momento.

In tutto ciò, vorrei dirti che non appena ho creduto di avercela fatta,
ho iniziato a chiedermi se ce la farò.

Questo è il bello della vita,

Questo è il bello del “Crescerò”.

Erica, anzi Atmosferica.
(Perennemente in viaggio…)

“E quindi? Adesso dove vai?”

Ore 8.08
Treno Italo,
Alta Velocità,
Roma Termini – Milano Centrale

Ti ho salutato dalla costa orientale della Sardegna e ora mi trovo qui, seduta al posto numero 4, della quinta carrozza in partenza dalla capitale.

Una mina vagante, una vagabonda. Il concetto di base e la radice di ogni parola, denotano il fatto che io stia vagando.
Alla ricerca di cosa?
Bella domanda.

O forse lo so.

Sono riuscita a creare una similitudine pensata ad hoc per le mie sensazioni, dinamiche di ritorno o forse di continuo viaggio.
Chi lo sa.
Mi paragono senza problemi ad uno scimpanzé che, aggirandosi tra persone e città, si trova totalmente diseducato nel vivere scene di normale convivenza, condivisione e comprensione.
Un animale selvatico abituato ai suoni della foresta e dei grilli, a vivere solo e senza aiuti, senza ritmi imposti ma solo seguendo flussi naturali.
Tutto questo si tramuta in una difficoltà di base che accomuna ogni situazione, nella voglia di continuare a viaggiare, di vivere in movimento, per rimandare continuamente l’impegno dell’adattamento.

Una settimana rigenerante di pura e selvaggia Sardegna, è stata seguita da Roma e dalla sua sabbia bollente ma comunque morbida. Ho cercato di dipingere a modo mio scene e paesaggi, ho creato affreschi e verdi selvatici, ho catturato immagini che possano fare da ponte tra quel che era, e quel che è.

Il nodo della questione, è che sono in difficoltà e che non voglio farmi risucchiare dalla solita banale quotidianità che quasi mai comprende sani colpi di testa o picchi di estremo coraggio. Vorrei non perdere questa mia indole, non potrei vivere senza scatti di cuore e stimoli adrenalinici.

La gente mi chiede quale sarà la mia prossima meta, mi dice che non mi devo fermare, che non posso farlo ora.
Spesso vorrei poter non sentire e ascoltare solo quel che arriva da dentro, non ciò che viene da fuori.
Non me ne volere ma in questi casi penso sia semplice dire:

“E quindi? Adesso dove vai?”

Beh, io non lo trovo per niente semplice, anche un po’ ingiusto. Spero sempre di ricevere domande più aperte di queste ma puntualmente non accade. Per quanto possa sembrare una domanda che urla libertà, è comunque chiusa in un preconcetto.
Chi ha viaggiato deve continuare a farlo, deve continuare a riempirsi gli occhi di vita.
Chi non lo ha fatto, è scontato che rimanga chiuso nel suo nido.

Beh, non credi sia limitante?

Non so cosa accadrà alla mia vita ma penso sia giusto che chi voglia esplorare, si senta libero di farlo con la propria anima.
Me compresa.

Milano, ore 11.34

Grazie vita.

Erica, anzi Atmosferica.

Sei mesi.

Quel giorno di sei mesi fa, ero seduta sul sedile posteriore della macchina. 12 Novembre 2015. Era mattina presto e respiravo intensamente il profumo della pelle delle mie sorelle più piccole, quella più grande non era potuta venire.
Sembrava dovessimo partire tutti, clima generale di agitazione e adrenalina, una valigia nel bagagliaio e il cuore ancor più vuoto dello stomaco.

Ti lascio immaginare.

Una sensazione assurda che solo chi parte può conoscere.

Nascondevo una leggera paura. Leggera per modo di dire. Prevaleva la gioia e il senso di libertà, finalmente potevo spiccare il volo. Potevo volare cazzo e potevo farlo serenamente. Finalmente. Avevo l’approvazione della mia famiglia e vedevo la gioia negli occhi lucidi ma pieni di domande dei miei genitori.

Ricordo poco di quel viaggio in macchina. Era mattina presto e avevo dormito poco ma comunque avevo dormito. Sentivo un leggero dolore agli occhi come quando mi capita di essere stanca ed ero struccata, libera anche da quello. Via tutto. Una volta arrivati nel parcheggio dell’aeroporto di Malpensa, l’alba iniziava a colorare il cielo di rosa e arancione. Il sole nasceva in tutta la sua grandezza. Una magia, un richiamo dall’alto come a dire: “Io sono pronto a farti volare!”.

Ricordo che ero abbastanza insofferente. Avrei voluto scappare. Avrei salutato tutti velocemente per superare il prima possibile il momento del distacco. Mi destabilizzava molto di più della partenza. Ho sempre odiato questo genere di scene o comunque situazioni in cui è inevitabile dover dimostrare Amore alla propria famiglia. In questo devo aver preso da mio padre però alla fine dei conti ci sforziamo sempre. Se riusciamo a prendere lo slancio giusto siamo più dolci di una rossa mela caramellata.

BBBBONA.

Ora non vedo l’ora di tornare anche per superare questo blocco. Non vedo l’ora di mettermi alla prova. Ci proverò.

Dopo il check-in e una veloce colazione, arrivò il momento dell’arrivederci. Chissà a quando, ma comunque arrivederci. L’ho reso il più veloce possibile, simpatico e non troppo affettuoso. È stato forte.

Prima dei metal-detector, una vetrata trasparente mi separava da loro. Mio papà piangeva, mia mamma quasi. Mia sorella Elena ha appoggiato la mano al vetro, voleva toccarmi per l’ultima volta. Non ci siamo realmente toccate ma attraverso quel gesto ci siamo scambiate un sacco di amore, quello che avevo paura di dimostrare nel momento del CIAO cinque metri prima, giusto due passi più indietro. Quelli decisivi.

Ero ormai già sola, ero già partita. In una mano tenevo ancora la sua e nell’altra la carta d’imbarco e il passaporto.

Quando mia sorella ha toccato quel vetro che ci rendeva già così lontane, mi si è chiuso lo stomaco ma ho comunque risposto con un bel sorriso. L’ho dovuta incoraggiare per l’ultima volta, ho dovuto rassicurarla con una risposta, prima della partenza verso le mille domande. Volevo dirle “A presto amore!” ma non potevo. Non sapevo se sarei tornata e quando, non conoscevo nulla del posto e dell’esperienza che mi aspettava, la mia testa viaggiava curiosa verso mondi lontani e l’idea di non poter toccare più quella manina, mi lacerava il cuore.

Quando l’aereo stava per partire quella è l’ultima foto che ho guardato prima di spiccare il volo.

Il decollo.

Non potevo parlare e mi veniva da piangere. In un secondo ho ripensato a tutti i saluti prima della partenza. Cene, aperitivi, sorprese e regali. Ero soddisfatta, avevo abbracciato tutti. Con fatica ma l’avevo fatto.

Ho letto “Ciao amore, buon viaggio!❤️“, ho sentito in me l’energia di un vulcano e in lei una donna già in grado di capire. Una piccola donna già matura e capace di chiudere silenziosamente in un piccolo cassetto la sofferenza del vedermi partire, augurandomi un buon viaggio con un cuore rosso. Che bellezza.

Sono passati sei mesi da quel giorno. Non ho più toccato quella piccola mano ma è anche grazie a lei se ne ho potute toccare tante altre.

Mese sei finisce.

Mese sette inizia.

Erica, anzi Atmosferica.

#tobecontinued

Poi arriva quel momento in cui ti guardi in una fotografia ed è come se ti guardassi dentro.
Ti vedi con occhi pieni di luce e un rosso sorriso appena accennato che vorrebbe quasi parlare, ma rimane chiuso.
Quelle guanciotte che hai sempre giudicato goffe, sono diventate inseparabili compagne di risate e quei capelli al color naturale, sono nuovi, di poche fotografie.
Delle ultime o forse di quelle cancellate.
Ti piace guardare chi sei diventata e ti ami così, senza limiti.
E insomma ti vedi diversa, trasformata, forse più donna, forse più saggia e sicuramente selvaggia, forse ti vedi più cosciente di chi sei ma soprattutto, di chi sarai.
Non parlo di lavoro e vita professionale, non parlo di carriera e di piramide sociale, parlo di Amore, Anima e Voglia di Volare.
Parlo anche di Spirito perché quello è essenziale.
Forse ti vedi nuovamente felice oppure sei felice nel vederti nuova.
Una cosa del genere insomma.
Una supernova.
Un’esplosione stellare, un’eclissi lunare.
Un gioco di parole, un gioco di emozioni e vibranti sensazioni.
Radiazioni.
Ringrazio la vita e il mio coraggio per avermi spinta fin qui.
Non so nemmeno io perché ho scelto questo posto, perché proprio una terra così lontana che a volte vuole solo toglierti il fiato.
Farti mancare l’aria.
Forse avevo bisogno di sentire mancanza e lontananza, di capire quanto distante sarei potuta andare per poi scoprire, quanto di nuovo nel mio cuore ci fosse da esplorare.
Sto provando tutto questo.
Ho vissuto tutto questo.
Ho sentito la forza dell’oceano tirarmi in basso, un forte vento spingermi in alto e poi anche l’asfalto correva, mamma mia quanto era caldo.
Ho fatto compagnia ad un gabbiano e gli ho chiesto di portarmi a volare.
“Si può fare!” mi ha risposto.
Era davvero un matto.
Un matto da legare.
Un matto come me.
Confesso.
E tu sai perché.
Sì perché quando senti questo potere, quando scopri di poterlo fare, non importa che tu sia fermo o in movimento, non importa che tu sia ricco o povero.
Ti serve solo avere la forza di prendere una bella rincorsa per spiccare il volo tenendogli la mano, al resto poi ci penserà il gabbiano.

#tobecontinued

Erica.

Riflessioni di Viaggio.

Amici miei, come mi ha detto una persona speciale facendomi sorridere…

…ormai viaggio più di un piccione!

Sono connessa da Canberra, la capitale d’Australia. Mai nessuno ne parla, mai che senta nominare questa città, mai mi è capitato di parlare con qualcuno che l’abbia visitata o ci abbia vissuto anche per un lungo o breve periodo che sia.

La domanda sorge spontanea…

Perché?

Sono venuta così a curiosare. Nel tragitto che collega Melbourne a Sydney, una deviazione porta il nome di Canberra. Una città piccola ma ricca, importante ma misteriosa. Domani andrò a toccare con piedi le sue strade e con mano gli edifici che la abitano. Finalmente conoscerò il suo volto e respirerò la sua aria! Non avrei mai potuto tirare dritto senza dedicarle almeno una mezza giornata. Mai.

Sono parecchio stanca e accaldata. Oggi abbiamo macinato 600 chilometri per arrivare qui, portandoci più vicini a Sydney. Non so se si percepisce ma sono gasata e vogliosa di mettermi in gioco in una grande città piena di folla! Uh la folla!Dovrò muovermi per cercare un lavoro e una casa, farò nuove amicizie, mi stabilizzerò e mi rilasserò.

Ho bisogno di fermarmi e guardare la realtà da un punto saldo. Ripercorrerò tutto il viaggio che mi ha portato fino a lì e magari andrò a rileggermi qualche articolo scritto nei mesi passati. Nella mia testa un turbinio di emozioni mi sconvolge e capovolge ogni volta che focalizzo quel che è stato e che provo a immaginare quel che sarà.

Scusate ma devo mantenere l’attenzione e non perdere di vista chi sono, cosa sto facendo, dove sto andando e perchè. Non voglio essere precisa o troppo inquadrata, semplicemente non voglio perdermi. Non sarà facile tenere a bada ogni tipo di emozione e sensazione. Mi prenderò tempo per riposarmi, perché si… Devo riposarmi.

Quando avrò un morbido materasso sotto la schiena e potrò abbassare le tapparelle fino a lasciar fuori anche il minimo spiraglio di luce, mi sembrerà di sognare ad occhi aperti.

Sono le ultime notti in Vando e il pensiero mi rattrista. È come se dovessi dire addio ad un compagno di avventura degno di lode, sempre presente ed estremamente protettivo. Lo saluterò augurandogli una buona continuazione di viaggio attorno alla grande Australia. Trasporterà altre persone, regalerà altre emozioni e sarà un guerriero per almeno altri 100 mila chilometri.

Sarà di altri e magari prenderà altri nomi.

Lui saprà per sempre, però, che “Vando” è stato solo per noi.

Erica, anzi Atmosferica.

Quattro mesi a Melbourne.

Scrivervi dall’88esimo piano dell’Eureka Skydeck di Melbourne, è una figata pazzesca.

In parole spicce, mi trovo sulla punta del grattacielo più alto da cui è possibile vedere tutto, scrutare le costruzioni e capire la conformazione della città. Da quassù è molto facile capire quanto dista dal mare, seguire il corso del fiume che la attraversa e spaziare oltre la parte centrale dove una zona periferica molto vasta fa da contorno.

Come dice il titolo dell’articolo, inizia oggi il quinto mese di viaggio. Il quarto si conclude, quindi, con l’incontro con Melbourne…

…e che incontro!

La giornata di perlustrazione è iniziata con un giro panoramico sul tram 35. L’unica linea gratuita che compie un tour rettangolare, seguendo il perimetro della parte centralissima della città. Subito sono rimasta sconvolta dal sovraffollamento del mezzo, fiumi di parole, fiumi di persone per la strada e fiumi di diverse culture. È proprio vero che qui si respira un’aria europea tanto che questo corso d’acqua che caratterizza la scena, mi ha ricordato per un momento Londra. Sarà anche il tempo coperto e grigio, sarà che tendo sempre ad associare una città nuova con un’altra già vista e visitata, ma questo è quello che ho pensato.

Decine di costruzioni altissime mi danno l’idea di pienezza e di crescita. Qui credo facciano bene ad innalzare edifici verso il cielo, non c’è più spazio! Una sensazione del tutto opposta me l’ha data Perth, e chi mi legge dagli inizi, ricorda bene l’impressione negativa e vuota che mi davano quei palazzoni di pura facciata.

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Melbourne è viva, variegata e piena di gente di tutti i tipi. Turisti da ogni dove scattano centinaia di fotografie, ragazzoni dallo stile azzardato attraversano a passo spedito con un caffè d’asporto tra le mani, donne eleganti parlano di lavoro al cellulare, molti bambini piangono nei passeggini e le ragazze si esibiscono in lunghe sfilate.

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Questo è quello che vedo insieme a tanti colori. La cattedrale dallo stile gotico, è immersa tra costruzioni pazzesche e super moderne dove il colore fa da linea guida nel progetto. Vetrate rosa, taxi gialli, infrastrutture fuxia e blu. Pennellate qua e là rendono il tutto più sorprendente, insieme alle giostre che colorano il fiume di mille luci.

Sono felice di essere qui e di essere riuscita a farmi un’idea di questa città tanto nominata ma mai spiegata. Ho potuto constatare che mi piace e se l’istinto non mi spingesse verso Sydney, ci rimarrei qualche mese. È molto giovane e arzilla, è ben servita da efficienti linee di tram e treni, da quassù vedo lo stadio, campi da tennis e lunghi vialoni alberati. Vedo un parco, il mare e una piazza chiusa tra bizzarri edifici.

È nuova, è veloce e grande, molto grande.

Beh, è stato un potente incontro che segna l’inizio del quinto mese. Melbourne ha riacceso in me la voglia di città anche se non è ancora questo il luogo e il momento. È come se avessi conosciuto una persona che mi abbia aperto gli occhi verso un nuovo mondo. Un concetto già conosciuto ma mai approfondito o paragonato all’alternativa. È come se ora riuscissi a cogliere l’essenza della città.

Avendo vissuto in luoghi deserti e per niente popolati per questi mesi di viaggio, ora la città mi chiama. È un richiamo che sento forte e chiaro, sento l’adrenalina di una nuova sfida, voglio rivivere tra la folla veloce che cammina spedita prendendomi la calma di osservare.

Sono pronta e consapevole che tutto ciò che vediamo, è il riflesso di quel che siamo. Una città ti sorride se sei tu il primo a sorridere, altrimenti, ti verrà solo voglia di scappare.

Erica, anzi atmosferica.

Il meglio di me.

Ecco che in un batter d’occhio, mi trovo a scrivervi dal Victoria, la Regione che ospita la città di Melbourne. In pochi giorni ci siamo lasciati alle spalle il Western Australia e il South, posizionandoci così ai posti di blocco per una nuova meta. La strada che ci separa dalla grande città si chiama Great Ocean Road e anche solo il nome può dirvi molto. È uno dei tratti più spettacolari dell’Australia a cui è difficile rinunciare scegliendo così di percorrerlo non badando a strade alternative, più brevi.

La connessione Wi-Fi in questo campeggio di Warrnambool è potente e stranamente di durata giornaliera. Posso così prendermi la calma di scrivervi e sbizzarrirmi più tardi sul web facendo un sano zapping tra siti di mio interesse.

Oggi me la godo.

Siamo partiti stamattina da Mount Gambier (Sembra anche a voi un nome francese?) dove abbiamo passato la notte e prima di riaccendere i motori, abbiamo visitato il Blue Lake. Un lago formatosi nella bocca di un vulcano che mette a tacere ogni possibile lamentela o borbottìo. Sulla ringhiera lucchetti colorati, di amici o innamorati, hanno attirato la mia attenzione diventando parte integrante del paesaggio, della visione.

Una giornata grigia e umida ci ha accompagnato fino a qui, per 187 chilometri verso sud-est.

Per combattere con il problemino di cui vi ho parlato ieri, mi sono piazzata alla guida, ricercando stimoli creativi nella concentrazione. Quando si viaggia, tutto passa veloce ma può succedere che pensieri birichini, vogliano essere ancora più veloci azzardando con un sorpasso sulla sinistra (Qui è vietato!!). Ti trovi così sorpreso e impotente davanti a un azzardo del genere, vai su tutte le furie ma devi placare l’istinto di accelerare per corrergli dietro.

È difficile ma devi, altrimenti finisci per farti male.

Nel tragitto abbiamo deviato per Portland, un paesino sulla punta di una piccola penisola, attraversando valli verdi coperte dalla nebbia. Eh sì, una fitta nebbia. Il paesaggio era collinare e la strada seguiva le sue curve, mucche nere nere pascolavano nutrendosi di sana erba e pecore grigie grigie si intonavano con il cielo. Non avrei mai pensato di imbattermi in banchi di nebbia del genere ma appunto per questo, è stato suggestivo. Sorprendente.

Sulla punta di Portland, ho visto l’orizzonte dell’oceano annebbiato e ho iniziato a “canticchiare” inconsciamente quella poesia di Carducci che la Maestra Enza mi aveva fatto imparare a memoria alla scuola elementare.

“La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar.”

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La prima strofa faceva così e continuavo a ripetere quella perché parlare de  “l’aspro odor dei vini” o dello spiedo che gira sui ceppi accesi scoppiettando, mi sembrava del tutto fuori luogo.

🙂

La Maestra Enza.

Che ricordi che ho rispolverato…

Mi voleva bene ed ero la sua seconda preferita dopo la Bonfanti, la sua cocca nonché mia migliore amica. Ricordo che quando aveva bisogno di un quaderno di italiano per ricordare a che punto si fosse fermata con la spiegazione la lezione precedente, chiedeva sempre il suo. Il mio lo chiedeva solo quando la Bonfanti era assente.

Iniziai così a scrivere come lei e a comportarmi come lei perché sotto sotto, avrei voluto essere io la cocca della Maestra Enza. Ricordo che era una signora di mezza età e portava occhiali da vista con lenti spesse spesse. Sulle sue labbra non mancava mai un filo di rossetto e sulle sue unghie uno smalto rosato. Quando si arrabbiava faceva abbastanza paura e quando si lasciava andare a momenti di dolcezza, mangiava il suo Pocket Coffee che custodiva golosamente nel taschino.

Al momento di imparare le poesie a memoria diventavo matta. Mia mamma mi aiutava e ricordo che ripetevo la stessa manfrina più e più volte, commettendo più e più volte gli stessi dannati errori.

Invece che dire…

“Va l’aspro odor dei vini..”

dicevo…

“Va l’aspro odore del vino…”

Banale errore che toglieva poesia alla poesia. Non riuscivo ad immedesimarmi nello scrittore, nella sua mente, nelle immagini da lui descritte. Studiavo come fossi una macchinetta, senza capire il significato di quei versi in rima che mi facevano impazzire per lunghe ore. Al momento dell’interrogazione, mi batteva il cuore, mi sudavano le mani e ripetevo meccanicamente quel che avevo ripassato fino alla noia, la sera precedente.

Volevo essere perfetta, almeno come la Bonfanti. Volevo prendere un bel voto e tornare a casa soddisfatta dalla mamma. Ogni volta però, qualcosa mi bloccava e non riuscivo mai a dare il meglio di me.

Vorrei incontrare la Maestra Enza, vorrei farle leggere una poesia scritta da me. Magari quella che ho scritto quando “Il deserto, mi ha parlato.” oppure quella che ho scritto su “Una panchina blu e bianca…” in quel poetico 4 Dicembre. Vorrei recitargliela e prendere finalmente un voto, il mio voto.

Il meglio di me.

Erica, anzi Atmosferica.